Cassazione Civile sezione VI, n.21939 del 2 settembre 2019

Il caso. La vicenda in esame trae origine dalla domanda di risarcimento avanzata da una paziente nei confronti della struttura sanitaria, presso la quale aveva subito un intervento di artroprotesi al ginocchio, per l’accertamento della responsabilità di quest’ultima nella trasmissione dell’epatite C, asseritamente contratta a seguito del ricovero.

La paziente evidenziava di essere venuta a conoscenza della malattia a distanza di circa un anno dal predetto intervento allorché, in occasione di visite otorinolaringoiatriche, aveva effettuato una serie di analisi del sangue dalle quali emergeva l’elevata presenza di marker di epatite virale.

La struttura sanitaria convenuta respingeva ogni addebito, anche alla luce del fatto che in occasione dell’intervento di artroprotesi non era stata effettuata alcuna trasfusione di sangue.

Il Tribunale, richiamando gli esiti della CTU espletata in corso di causa, riteneva inferiore al 50% il grado di probabilità del contagio a seguito dell’intervento presso la casa di cura convenuta, posto che dall’istruttoria era emerso che la signora aveva subito, nel corso della vita, plurimi interventi chirurgici ed era stata esposta a numerose occasioni di possibile contagio, tali da rendere il rischio di aver contratto la malattia a seguito dell’intervento di artroprotesi “più probabile no che sì”.

La Corte di Appello, condividendo le motivazioni rese dal Giudice di prime cure, rigettava il gravame e confermava in toto la sentenza impugnata.

Avverso la predetta sentenza, la paziente proponeva ricorso per Cassazione, lamentando l’errata applicazione dell’art. 2697 c.c. per non avere addossato in capo alla struttura sanitaria l’onere di dimostrare che la paziente fosse già affetta dalla malattia prima dell’intervento o che, in ogni caso, il contagio fosse avvenuto aliunde.

La massima. La Cassazione ha ritenuto infondata la censura mossa dalla paziente ritenendo, preliminarmente, che il principio di vicinanza alla prova non può essere invocato per eludere o sovvertire l’onere probatorio allorché le circostanze oggetto di prova siano facilmente accessibili per entrambe le parti; oltre a ciò, la Suprema Corte ha valorizzato i risultati della perizia medico legale all’esito della quale il rischio di contagio a seguito dell’intervento di artroprotesi era stato valutato in termini di scarsa probabilità (inferiore al 10%), stante l’esposizione della paziente a numerosi altri eventi patogeni.

Per tali motivi, richiamando numerosi propri precedenti, la Cassazione ha ribadito che “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell’attore, paziente danneggiato, provare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, la causa del danno”.

Nel caso di contrazione di malattie infettive a seguito di un intervento chirurgico, la Suprema Corte ha precisato che può ricorrere una presunzione della derivazione del contagio dalla condotta dei sanitari solo “in assenza di fattori alternativi più probabili”  rispetto a quello oggetto di contestazione, con la conseguenza che spetterà in tal caso alla struttura sanitaria fornire una prova idonea a superare siffatta presunzione; tuttavia, nel caso in esame, non avendo la paziente subito alcuna emotrasfusione nel corso dell’intervento di artroprotesi ed essendo invece stata esposta in precedenza a diversi fattori di rischio, non poteva ricorrere alcuna presunzione a carico dell’operato del personale sanitario.

Alla luce dei suddetti principi, la Suprema Corte ha ritenuto che la paziente non avesse assolto l’onere della prova in punto nesso causale, escludendo il risarcimento e rigettando il ricorso.

Avv. Maurizio Orlando e Avv. Alessandra Cenci – Lexat Tax & Legal Advisory